Il Consiglio dei Ministri il 7 marzo ha presentato un disegno di legge con cui viene introdotto il delitto di femminicidio.

Un trasversale accoglimento del provvedimento per il riconoscimento di questo delitto, ha però messo in secondo piano che esso è di fatto riconosciuto come circostanza aggravante, per cui è cagionata la pena dell’ergastolo.

Passo importante che non ha trovato voci contrarie, se non mezze voci che ritengono, giustamente, insufficiente la sola via repressiva.

Premesso che le sanzioni previste dal codice penale accolgono in misura più o meno esplicita, quella naturale esigenza di vendetta sociale nei confronti di chi commette dei delitti, è altresì evidente che la pena dell’ergastolo è in se contraria al principio costituzionale  espresso nell’art. 27 della Costituzione, con cui si esplicita che il senso della detenzione è quello della rieducazione del condannato.

L’ergastolo è un fine pena mai, che tutti i movimenti politici progressisti cercano, con ragione, di cancellare dalle  sanzioni penali esistenti.

Il femminicidio è un delitto orribile e intollerabile, perché agito verso chi subisce già un’azione discriminatoria esplicita o velata.

Non è con l’inasprimento della pena però che questo delitto può essere combattuto, ma con azioni incisive sul piano legislativo e educativo.

Usare l’ergastolo per sanzionare penalmente il femminicidio nel consenso generale, equivale a imbrigliare politicamente chi porta avanti la volontà di rimozione della pena dell’ergastolo per i delitti che lo prevedono.

Parimenti porta avanti quella volontà politica che in via generale sostiene l’inasprimento della pena, che però come tutti sappiamo, non ha mai determinato la riduzione dei delitti associati, ma solo appagato quel desiderio di vendetta sociale, di estrema matrice populista.