Se quando pensate al Carnevale pensate a stelle filanti e mascherine, carri allegorici e divertimento spensierato vuol dire che non siete mai stati in Sardegna.

Non per Carnevale almeno. Qui il Carnevale – Su Carresecare è qualcosa di diverso: un rito antico, ancestrale e suggestivo, diverso da zona a zona, ricco di rimandi al mito e alla tradizione agricola dell’isola.

Secondo una delle interpretazioni più accreditate il termine Carnevale” deriverebbe dal latino carnem levare (“eliminare la carne”) e indicava proprio un banchetto che si teneva l’ultimo giorno di Carnevale, il martedì grasso, prima del periodo di digiuno della Quaresima... anche se in realtà è la pentolaccia che rappresenta l’ultimo giorno della festa, tra l’altro in piena Quaresima.

Nonostante le maschere del Carnevale sardo cambino da paese a paese, mantengono tutta una serie di tratti comuni, rimandando quasi tutte ad un’origine unica: un culto antico legato alla fecondazione delle terra e al sacrificio dionisiaco.

Andando a vedere più da vicino alcune di queste maschere troviamo, tra le più famose, quelle dei “Mamuthones” e gli “Issohadores” di Mamoiada.

L’inizio del carnevale mamoiadino è sancito dalla festa di San Antonio Abate, che cade il 17 gennaio, occasione in cui avviene la vestizione dei due uomini che subiscono una metamorfosi trasformandosi nei due personaggi misteriosi protagonisti dell’evento. Solo a quel punto può iniziare la festa vera e propria, con canti e balli in maschera, organizzati ogni sabato del mese all’interno della Sala Comunale, che viene aperta per l’occasione.

Tutta la popolazione è coinvolta nella festa.

Siamo a 13 chilometri da Nuoro. Le maschere tradizionali sono i Mamuthones e gli Issohadores, i primi, vestiti di pelli di pecora, indossano una maschera nera di legno d'ontano o pero selvatico, e sulla schiena portano appunto "sa carriga", campanacci dal peso di circa 30 kg.

Gli Issohadores indossano una camicia di lino, una giubba rossa, calzoni bianchi e alcuni portano una maschera antropomorfa bianca.

I primi camminano lenti e curvi sotto il peso dei tanti campanacci che fanno suonare con un colpo della spalla ad intervalli regolari. Gli Issohadores rispondono gettando il laccio per catturare i prigionieri scelti tra la folla. Con dei lacci catturano le giovani donne in segno di buon auspicio per una buona salute e fertilità. Un tempo venivano catturati i proprietari terrieri per augurare loro una buona annata ed essi, per sdebitarsi dell'onore ricevuto, portavano tutto il gruppo a casa loro e offrivano vino e dolci.

Il centro del Carnevale è la piazza principale del paese dove i mamoiadini si esibiscono nel tradizionale ballo tondo. Un rito sociale con regole ben definite spezzato solamente dal passaggio delle maschere.

La piazza si ferma al passaggio e l’unico movimento è quello dei Mamuthones e Issohadores. Gli unici suoni che sovrastano ogni cosa sono quelli dei campanacci.

Ma il Carnevale di Mamoiada non è solo maschere: è momento di convivialità e di unione. I dolci tipici e il vino cannonau fanno parte integrante della festa e vengono offerti ai partecipanti.

Da Mamoiada ci spostiamo ad Ottana in cui sono presenti altre figure molto importanti nel panorama carnevalesco sardo, ovvero il “Boe”, il “Merdùle” e la “Filonzana”.

Il Boe è la rappresentazione del bue, con dei grandi velli di pecora o capre, una fascia di campanacci giganteschi e delle splendide maschere bovine con foglie intagliate all’altezza delle guance e con uno strano simbolo sulla fronte, a forma di stella, il cui significato rimane tutt’oggi un mistero. La maschera è completata dagli occhi a mandorla (sempre all’insù), il muso pronunciato e le alte corna, dritte o ricurve verso l’interno.

I Merdùle, che rappresenta la figura del padrone, veste con le stesse pelli del Boe ma ha pantaloni di velluto nero e un fazzoletto dello stesso colore sul capo. La maschera è umanoide, nera come la pece, deforme e ghignate mentre sulle spalle portano “Sa taschedda”, una borsa di pelle marrone conciata, dove si mettevano un tempo le provviste. Camminano faticosamente tenendosi ad un bastone detto “su mazzuccu” emettendo strani e lugubri lamenti. Con sé porta anche “s’orriu”, un cilindro di sughero ricoperto di pelle conciata che al suo interno ha una lunga cordicella che viene sfregata dalle mani appositamente unte di grasso, del Merdùle. Questo gesto produce un suono cupo e basso che serve ad intimorire i Boes, rendendoli più mansueti e docili verso i loro padroni.

Durante l’evento folkloristico i buoi, spronati dai padroni, scalciano, imbizzarriscono, si lasciano cadere per terra. È in questo momento in cui il padrone si inginocchia e calma l’animale accarezzandolo sul muso, spronandolo affinché questi si rimetta in piedi e ricominci nel suo duro lavoro per dissodare il terreno.

 
Se poi il Boe continua a ribellarsi interviene l’ultimo e più terribile personaggio del Carnevale ottanese, la Filonzana. Quest’ultima maschera rappresenta une vecchia, tutta vestita di nero come le vedove sarde con gonna e scialle, piccola e gobba, quasi rattrappita in se stessa. Porta un fazzoletto nero sul capo ed una maschera fatta di legno di pero selvatico, l’albero sacro di tutta una serie di divinità lunari, tinta di nero anch’essa.  E' una figura paurosa e oscura; è colei che tesse il filo della vita.

Anticamente questa maschera aveva un valore potentissimo. Una figura che, se non rispettata e temuta a dovere, poteva portare sventura, maledizione, carestia.

Nell’antico antico mondo agro-pastorale sardo, legato alla stranezza delle stagioni e a forze naturali incomprensibili, la superstizione e le benevolenza delle divinità giocavano un ruolo fondamentale e la Filonzana era il loro araldo nel mondo.

Il valore profondo del carnevale in Sardegna sta nel fatto che è uno degli ultimi riti collettivi che ci rimangono. Una grande comunità, che per carnevale si ferma, si raccoglie davanti al un fuoco di un falò e osserva il mistero del carnevale, riuscendo in tal modo a dimenticare i propri conflitti ed i propri dolori.

Un rito collettivo di rituali passati che si inserisce a pieno titolo in quel senso di venerazione e ammirazione che era dell’uomo paleolitico e neolitico per gli animali e la natura.

Gli animali erano maestri. Osservandoli si imparava l’arte della vita e della morte. D’altronde gli animali erano superiori all’uomo: nella vista notturna, nella resistenza, nell’equilibrio, nella velocità, nella forza, nell’istinto. E' probabile che gli animali fossero ritenuti incarnazione e dono del potere divino che concedeva all’uomo per rigenerarsi, vivere, proseguire.

Sono molte le tradizioni tribali ancora oggi in vita che vedono negli animali il tramite fra uomo e divino: per mezzo degli animali il divino parla agli uomini e insegna loro la saggezza.

Purtroppo, in un momento imprecisato degli ultimi tre milioni di anni la natura ha smesso di essere Dea e Dio è salito in cielo, non più padre biologico degli uomini e donne, ma spirituale.

In un colpo solo abbiamo perso il legame con gli animali, la madre sacra e la nostra eredità divina della quale avevamo pieno diritto in quanto figlie e figli di una divinità, ma abbiamo conservato questi riti che giungono a noi da tempi antichissimi.

Molti studiosi hanno certificato che questi riti avevano un significato che, a loro modo, servivano per propiziarsi le divinità, perché il mondo nel quale si viveva all’epoca era duro e terribile.

Purtroppo, anche noi, per quanto ci possiamo scandalizzare, tra guerre mondiali, armi atomiche, sfruttamento del terzo mondo, droga e quant’altro... non viviamo in un epoca migliore di quella (foto di Pierino Vargiu).

Stefania Cuccu